Giorgio Castriota Skanderbeg

skanderbeg

Gli albanesi giungono in Italia

Durante il governo dell’abate commendatario Carlo Cioffi, giunse nei territori del monastero di Santa Maria di Acquaformosa un gruppo di profughi albanesi, fuggiti dalla loro patria per sottrarsi al dominio dell’invasore turco. Questi albanesi non erano i soli che in quel tempo vagavano per le terre del Regno di Napoli, insieme a loro erano fuggiti dall’Albania intere comunità; prima di loro altri avevano raggiunto le coste italiche, dopo di loro altri emigreranno. Tutti gli albanesi ambivano a raggiungere un’unica meta, la libertà

L’Albania nel secolo XV

L’Albania del XV secolo costituiva strategicamente una regione cuscinetto che la proponeva come teatro privilegiato degli scontri e delle tensioni tra i principati minori della penisola balcanica e, soprattutto, ne faceva una zona esposta a quella permanente contesa per l’egemonia, che vedeva antagonisti storici l’impero turco e l’insieme degli stati cristiani. I turchi, chiamati anche Ottomani, in onore del loro primo grande condottiero Othaman, erano originari dell’altopiano di Erzerum e, avendo ottenuto il permesso dal sultano d’Iconio, si stabilirono in un piccolo territorio sulle rive del Sangario, nella Turchia settentrionale. In cambio di ciò combattevano, come mercenari, per il sultano. Quando verso la fine del XIII secolo il sultanato cadde in mano ai mongoli, i turchi proclamarono la loro indipendenza e sovranità. Di quel piccolo territorio fecero la base di partenza per le loro conquiste. In breve tempo arrivarono sulle sponde del Mar Nero e, quindi, attraverso l’Ellesponto entrarono in contatto con le popolazioni dell’Europa sudorientale. Allora l’Albania, come le altre regioni contigue, era divisa in piccoli feudi: ciò facilitava non poco la progressiva avanzata dei turchi. Infatti non riuscendo a coalizzarsi, i principi dei feudi albanesi entravano in guerra solo quando il nemico minacciava direttamente i loro confini. La maggior parte del territorio albanese era governato da grandi e nobili famiglie i Dukagin, i Thopia, i Balcha, gli Arianiti, i Musachi, gli Spata ed infine i Castriota. Questi ultimi avevano la loro Capitale nella città di Croia, altri centri importanti appartenenti al Principato erano Petrella, Petralba , Stellusio, Sfetigrado. Tra la fine del XIV secolo e la prima metà del XV a capo della famiglia dei Castriota c’era Giovanni, che da sua moglie Voisava ebbe 9 figli, quattro maschi e cinque femmine: Giorgio nacque a Mati tra il 1404 e il 14052. Anche Giovanni Castriota, come tutti i feudatari albanesi, fu protagonista di lunghe e sanguinose lotte contro i turchi. Durante una delle guerre Giovanni Castriota fu costretto dagli invasori a cedere alcune terre del suo principato e a dare in ostaggio i suoi quattro figli maschi.

Skander-bey

Giorgio ed i suoi fratelli furono condotti alla corte di Murad II ed educati alla religione musulmana. L’impegno e le attitudini militari del giovane Giorgio attirarono le simpatie del sultano che lo fece educare a corte, come un principe, e gli diede il nome di Skander-bey, principe Alessandro. Durante la sua permanenza ad Adrianopoli, capitale dell’impero turco, non si limitò a diventare un forte guerriero e a studiare strategia e tattica militare sui libri, ma studiò anche le lingue e imparò a parlare correntemente, oltre l’albanese ed il turco, anche l’italiano, il greco e l’arabo A diciasette anni era già ufficiale dell’esercito turco. A venti comandava un corpo di cavalleria di circa 5.000 uomini. Durante questo periodo sembra che Skander-bey non nutrisse una particolare attenzione per il popolo albanese. Niente fa pensare che abbia vissuto con disagio la sua lontananza dall’Albania, anzi la sua rapida carriera militare fa pensare il contrario. Così mentre il padre combatteva in patria contro i turchi, Skander-bey li serviva combattendo nell’Anatolia a capo del formidabile ed organizzatissimo gruppo scelto dei Giannizzeri. La ribellione di Skander-bey non fu improvvisa, nè avvenne senza contraddizioni. Skander-bey era un guerriero e come tale conosceva e rispettava le regole della guerra. Se gli albanesi combattevano contro i turchi era fatale che molti di loro dovessero morire. Ciò che fece maturare nel giovane Castriota la decisione di ribellarsi a Murad II fu un fatto che toccò direttamente la sua famiglia. Accadde che dopo la morte di suo padre, avvenuta tra il 1442 e il 1443 i superstiti possedimenti dei Castriota furono affidati ad Hassan- bey. La madre di Skander-bey, fu esiliata insieme a sua figlia Mamiza, e morì lontano dalla patria senza aver mai rivisto il figlio. Questo fece mutare la condotta del guerriero. Il suo desiderio di vendetta fu frenato dal calcolo militare: egli aveva ben chiaro in mente che porsi contro Murad II significava combattere fino alla fine, fino alla morte di uno dei due. L’occasione propizia si presentò nel 1443 quando Murad II affidò a Skander-bey e a Cara-bey un esercito di 20.000 uomini per combattere contro l’esercito ungherese di Giovanni Hunyadi. Durante la battaglia che si svolse vicino a Nish, il condottiero ungherese inflisse una dura sconfitta all’esercito turco. Skander-bey, circondato da un manipolo di fidati guerrieri, anch’essi dati in ostaggio ai turchi, non reagì alla sconfitta, anzi si diresse verso l’Albania, verso i feudi dei Castriota. Su questo atteggiamento di Skander-bey gli storici hanno avanzato numerose ipotesi, secondo alcuni l’albanese aveva preso accordi precedentemente con Hunyadi, secondo altri semplicemente ordinò ai suoi uomini di non combattere. In tutte e due le ipotesi c’è da supporre che il condottiero aveva studiato ogni mossa. Infatti, dopo la battaglia il Castriota mise in pratica la seconda parte del piano. Si fece rilasciare da un guardasigilli di Murad II un ordine per il governatore di Croia affinchè gli cedesse il comando della città. E’ probabile che ottenne l’ordine con l’astuzia, senza violenza, ma è certo che per evitare qualsiasi intralcio uccise il dignitario turco. Con l’ordine si diresse verso la sua patria. Il piano messo a fuoco presentava una sola incognita: la reazione del popolo albanese. La paura del guerriero si trasformò in gioia quando venne accolto con grande entusiasmo dagli abitanti di Dibra. Queste popolazioni intuirono che, Skander-bey, colui che era stato uno dei più grandi capi dei loro nemici, poteva diventare Scanderbeg, il loro condottiero. Inizia l’epopea di un condottiero che si meritò la fiducia dei papi del suo tempo, i quali di volta in volta lo definirono “principe cattolico”, “difensore della fede”, “atleta di Cristo”, e che gli stessi sultani turchi definirono “la spada e lo scudo dei cristiani”.

Scanderbeg

Trecento dibrani, i più forti, seguirono Scanderbeg per la presa di Croia. Il governatore della città passò subito le consegne a Scanderbeg, credendolo ancora ufficiale dell’esercito turco. Appena dentro la città, egli fece entrare anche gli albanesi che lo seguivano dalla battaglia di Nish e i dibrani che lo avevano seguito. Presi alla sprovvista i turchi furono passati per le armi, Croia ritornò nelle mani dei Castriota. Le gesta del condottiero diedero maggior vigore agli albanesi, che mai si erano arresi ai turchi. Riunito un esercito con l’aiuto dei feudatari albanesi, tra cui Gino Musachio, Ghioca e Giorgio Balcha, Scanderbeg riconquistò le fortezze che un tempo erano appartenute alla sua famiglia: Petrella, Petralba, Stellusio e Sfetigrado. Una volta rientrato nel possesso del suo feudo Scanderbeg iniziò una vasta azione di riorganizzazione civile, ripristinando il vecchio ordinamento, e militare, addestrando un piccolo esercito. I successi nelle prime battaglie, vinte anche perchè i turchi furono colti di sorpresa nel vedere Scanderbeg combattere contro di loro, non crearono eccessiva euforia nel condottiero; che conosceva fin troppo bene l’esercito turco, per pensare di affrontarlo da solo, con i pochi uomini del suo principato. Fu per questo che pensò ad una coalizione di tutto il popolo albanese. Non c’era tempo da perdere, perchè nella primavera del 1444 si sparse la voce che Murad II si stava preparando per l’attacco definitivo all’Albania. Conosciuta questa notizia Scanderbeg decise di accelerare i tempi e, superando pregiudizi e odi secolari, riuscì a riunire tutti i più importanti regnanti d’Albania ad Alassio — allora possedimento di Venezia che era disposta a favorire qualsiasi azione capace di combattere i turchi — il 1° marzo del 1444. Tutti i principi appoggiarono la proposta di costituire una coalizione di tutto il popolo albanese, e si assunsero l’onere di contribuire alla riuscita dell’impresa con denaro e con uomini. Nacque la Lega dei principi albanesi a capo della quale fu chiamato Scanderbeg a cui venne dato anche il comando dell’esercito. Scanderbeg si dedicò con slancio al suo nuovo incarico, ed in quest’opera rivelò tutto il suo estro militare. Come prima iniziativa fece un censimento in tutta l’Albania per sapere quanti fossero gli uomini adatti alla guerra, dopodichè creò un esercito nazionale, senza l’ausilio di mercenari.
La guerra contro i turchi

La prima battaglia tra gli albanesi di Scanderbeg e i turchi si svolse a Torviollo il 29 giugno 1444. Il piano strategico messo a punto dal condottiero albanese era perfetto. Le sorti dello scontro, però, erano incerte per almeno due motivi. Il primo motivo riguardava l’esercito albanese, che per la prima volta si cimentava in una battaglia campale, il secondo motivo di preoccupazione era dato dalla pericolosa tendenza delle prime linee albanesi di non ritirarsi mai, neanche se la tattica lo richiedeva. La tensione scomparve quando, al cospetto dei turchi comandati da Alì Pascià, gli albanesi eseguirono perfettamente le consegne. All’esercito turco, composto da circa 25.000 uomini, furono inflitte gravi perdite, 8.000 morirono in battaglia, 2.000 furono fatti prigionieri . L’eco della vittoria si sparse per tutta l’Europa, molti regnanti tirarono un sospiro di sollievo. L’Albania, insieme all’ Ungheria di re Ladislao e del condottiero Hunyadi, diventò l’estremo baluardo contro i turchi. La vittoria ebbe effetti opposti tra i principi albanesi, che assecondarono maggiormente Scanderbeg, e tra i turchi, che cominciarono a temere l’esercito albanese. Murad II che conosceva molto bene il valore e l’ingegno di Scanderbeg, facendo leva anche sull’affetto che un tempo l’albanese nutriva nei suoi confronti, gli offri la pace, insieme ai territori che un tempo appartenevano ai Castriota e che ora erano di nuovo in mano sua. Scanderbeg non solo non accettò l’offerta, ma addirittura invitò Murad II ad abbandonare la religione musulmana e ad abbracciare quella cristiana. Appena l’ambasciatore turco ripartì, Scanderbeg radunò i suoi soldati e confidò loro che, dopo aver letto quella lettera, Murad II° avrebbe rivolto contro l’Albania forze ancora maggiori. Così avvenne: per il popolo albanese iniziarono decenni di lotte contro un nemico che poteva disporre di un esercito sempre più numeroso. Numerose sono le battaglie vinte dagli albanesi, pochissime le defezioni. Durante questa guerra interminabile Scanderbeg cercò sempre di mantenere buoni rapporti con l’occidente, soprattutto con Venezia, lo Stato pontifico e il Regno di Napoli.

Scanderbeg nel Regno di Napoli

Grande alleato di Scanderbeg fu Alfonso V d’Aragona, re di Napoli. L’amicizia che li legava si basava su una solida alleanza politica e militare. Quando il re mori nel 1458 il suo regno fu diviso tra suo figlio Ferrante, che assunse il trono del Regno di Napoli , e suo fratello, il re di Navarra, che prese possesso della Sicilia. Ma il passaggio non fu indolore: il Regno di Napoli era appetito dallo stesso sovrano di Navarra e dal papa Callisto III, che voleva donarlo a suo nipote Pietro Luigi Borgia. A questi si aggiunsero altri pretendenti dall’Italia e dalla vicina Francia. Neanche la morte di Callisto III e la salita al soglio pontificio di Pio II, che non nutriva nessun interesse per il Regno di Napoli, fu sufficiente ad attenuare la tensione. Le cose precipitarono quando marciò sul Regno di Napoli Giovanni d’Angiò. Re Ferrante chiese aiuto al papa ed agli Sforza di Milano. Ma l’esercito papale fu sconfitto dagli angioini. Lo stesso Re Ferrante fu chiuso in assedio a Barletta. Quando tutto sembrava perduto, al re partenopeo giunse un aiuto insperato: Scanderbeg. Era il 1460 e l’Albania godeva di un momento di relativa calma, susseguente al trattato di pace stipulato fra Maometto II, figlio e successore di Murad II, e Scanderbeg. Sicuro che il suo popolo non correva pericoli immediati, il condottiero albanese con un esercito scelto salpò alla volta dell’Italia. Quando giunse a Barletta gli assedianti arretrarono la linea di sbarramento e permisero al re Ferrante di riprendere la lotta. I due contendenti si scontrarono ad Orsara, dove gli eserciti di re Ferrante e di Scanderbeg sconfissero quello angioino. In segno di riconoscenza re Ferrante concesse a Scanderbeg i feudi di Monte Sant’Angelo e di San Giovanni Rotondo.

Riprende la guerra contro i turchi

Intanto Maometto II aveva ripreso con maggior vigore la sua offensiva contro l’Occidente. Conquistò tutte le isole del Mediterraneo Orientale, la Bosnia, e minacciava direttamente Venezia. Papa Pio II, temendo l’invasione islamica, dapprima tentò di convertire il sultano, poi, una volta fallita l’azione, decise di organizzare una crociata per difendere il cristianesimo dall’invasione musulmana. I cardini di questa crociata furono nuovamente l’Albania e l’Ungheria. Scanderbeg, anche contro il volere dei suoi principi, riaprì le ostilità contro Maometto II, temendo che il sultano, dopo aver conquistato le altre regioni dei balcani, avrebbe rivolto le sue forze contro l’Albania. Le azioni di guerra non tardarono a riprendere e ad Ocrida si consumò una nuova dura sconfitta per l’impero turco. La nuova crociata sembrava essere nata sotto i migliori auspici. Ma l’euforia durò poco, infatti il 14 agosto 1464 morì papa Pio II, e con lui svanì anche il progetto della grande crociata. Ormai l’idea di una guerra di religione non attirava più i regnanti europei, i quali volevano bensì combattere i turchi, ma solo per necessità politiche e mercantili. Scanderbeg rimase nuovamente solo contro il suo nemico; Maometto II organizzò nuove offensive contro l’odiato albanese. La prima fu condotta da Balaban, un albanese figlio di un servo del padre di Scanderbeg. Anche lui, un tempo dato in ostaggio ai turchi, divenne il più grande generale di Maometto II. Alla testa di un esercito di 18.000 uomini si scontrò con l’esercito albanese nella pianura di Valcalla. I 5.000 uomini di Scanderbeg inflissero una nuova sconfitta all’esercito nemico, ma durante questa battaglia accadde un fatto da sempre temuto da Scanderbeg: infatti la prima linea del suo esercito, non rispettando gli ordini, inseguì l’esercito di Balaban e cadde in una trappola da questi tesa. Furono fatti prigionieri alcuni fra i più valorosi guerrieri d’Albania, mai vittoria, per Scanderbeg, fu tanto triste. Per tentare di liberare i suoi valorosi soldati, Scanderbeg inviò un ambasciatore a Costantinopoli, che era stata conquistata da Maometto II nel 1453, e poi diventata la capitale dell’impero turco, per offrire qualsiasi cifra in cambio della liberazione dei prigionieri. Maometto II non accettò, anzi li fece torturare e uccidere. La notizia giunse in Albania e sconvolse tutto il popolo. Scanderbeg in preda all’ira uccise con le sue mani tutti i prigionieri turchi, decapitandoli con la sua spada. Intanto Balaban, sperando di vincere l’esercito albanese, organizzò un’altra invasione dell’Albania, e poi un’altra ancora, ma sempre con gli stessi risultati negativi. Dopo queste sconfitte, lo stesso Maometto II si mise a capo del suo potente esercito. Non esistono notizie storiche certe sulla consistenza numerica dell’esercito turco: qualcuno parla di almeno 150.000 uomini, altri di 200.000 e anche di 300.000 uomini. Il piano di Maometto era semplice e preciso: espugnare Croia. Scanderbeg che aveva previsto ciò, mise a punto una contromossa altrettanto semplice e dai risultati molto efficaci. Divise i suoi uomini in due reparti, il primo di 4.000 unità, con a capo Tanusio Thopia, venne schierato all’interno delle mura di Croia con il compito di difendere la città. Scanderbeg con un altro drappello di valorosi si appostò sul vicino monte Tomorischta con il compito di colpire l’esercito di Maometto II con rapide ed improvvise azioni di guerriglia. Il piano di Scanderbeg funzionò perfettamente. Maometto II si rese conto della difficoltà di prendere Croia con un attacco diretto, ordinò, quindi, a Balaban di cingere d’assedio la città con metà dell’esercito, mentre lui stesso si mise alla testa degli altri uomini: avrebbe portato la guerra nelle altre regioni albanesi. Così avvenne e Maometto II procurò danni e lutti ovunque passò. Intanto Balaban cingeva d’assedio Croia in modo ferreo. Tutt’intorno la città costruì fortini, trincee e fortificazioni di ogni tipo. Scanderbeg dal canto suo, visto come si erano organizzati gli assedianti, reputò non vantaggiosi gli attacchi che tanti suoi successi gli avevano procurato. Una battaglia in campo aperto era da escludere, perchè egli non disponeva di un esercito adeguato. L’unica via di salvezza potevano essere aiuti che sarebbero dovuti venire dai paesi amici dell’Albania. Fu così che con alcuni amici fidati partì per Roma. Arrivò nella città eterna nel dicembre del 1466. Papa Paolo II gli donò un elmo ed una spada benedetta e 3.000 ducati; altri aiuti gli vennero da Napoli e da Venezia. Tornò in Albania e riuscì a formare un esercito di 13.000 uomini, sufficienti per scontrarsi con i turchi. Lo scontro fu cruento, i turchi colti di sorpresa furono sbaragliati; lo stesso Balaban trovò la morte. Reso ancor più furioso da questi ultimi avvenimenti, Maometto II nella primavera del 1467 ancora una volta si pose a capo di un grande esercito e mosse verso l’Albania. Giunse fino a Croia praticamente senza alcuna resistenza, ma qui trovò l’accoglienza solita; demoralizzato, fece ritorno a Costantinopoli. Approfittando del ritiro di Maometto, Scanderbeg liberò tutti i territori ancora in mano al nemico. Temendo nuovi attacchi, Scanderbeg chiese un nuovo incontro di tutti i principi albanesi, nuovamente ad Alessio, per rinvigorire la Lega dei Principi. Ma non riuscì nel suo intento, perchè si ammalò gravemente. Il grande guerriero che aveva vinto mille battaglie contro i turchi, nulla potè contro la malattia, probabilmente la malaria. Intanto i turchi nell’inverno tra il 1467 e il 1468 sferrarono un nuovo attacco a Croia. Scanderbeg ebbe un ultimo sussulto, volle la sua armatura, ma, appena indossatala cadde a terra privo di forze. Il 17 gennaio 1468 morì l’eroe albanese, ma anche l’eroe di tutto l’Occidente, il braccio armato del cattolicesimo, che contribui ad impedire la colonizzazione islamica dell’Europa. Anche dopo la morte del loro condottiero gli albanesi resistettero al turco per oltre un decennio, poi, quando il nemico prese il sopravvento, molti albanesi, piuttosto che cadere prigionieri nelle mani dei turchi, lasciarono la loro patria per cercare ospitalità nelle vicine terre italiane.

Le emigrazioni verso l’Italia

Le emigrazioni che portarono gli albanesi dalla loro terra verso l’Italia furono numerose. La ricerca storica sull’argomento non permette di affermare con certezza le date dei vari spostamenti e delle primissime vicende degli esuli albanesi in terra italiana. In base ai documenti di cui si dispone, si sa che passaggi di gruppi sporadici hanno avuto luogo anche prima dell’invasione turca, e precisamente nel 1272, nel 1388 e nel 1393 . La tradizione storiografica concorda nel datare a metà del secolo XV l’inizio di consistenti flussi migratori dai Balcani verso l’Italia e soprattutto verso le provincie del Regno di Napoli. E’ probabile la presenza di nuclei armati albanesi, assoldati dal re Alfonso per controllare le sommosse del rinnovato Regno di Napoli, sin dal 1444. Nel 1448 Alfonso I d’Aragona, re di Napoli, volendo domare le rivolte scoppiate in Calabria, nel crotonese, ad opera del marchese Antonio Centelles, chiamò in aiuto i suoi alleati albanesi “che avevano fama di valore” . Questi, con a capo il capitano di ventura Demetrio Reres, giunsero in Italia ed in breve tempo domarono la rivolta ripristinando la signoria del re di Napoli su quelle contrade. Come segno di riconoscenza per l’aiuto prestato, Demetrio Reres fu nominato governatore di quella regione. Qui si stanziarono le truppe albanesi che fondarono i paesi di Amato, Andali, Aieta, Casalnuovo, Vena, Zagarona e Carafa. Ai due figli di Reres, Giorgio e Basilio, furono concesse delle terre in Sicilia, affinchè le presidiassero contro le temute scorrerie francesi. Si stabilirono nei territori dell’illustre casa Cardona-Peralta, nelle proprietà dei canonici di San Giovanni degli Eremiti e in quelle del monastero di Fossanova, fondando rispettivamente, in prossimità delle rovine di antichissimi casali, Contessa Entellina, Mezzojuso e Palazzo Adriano. Un altro gruppo si stabilì nei territori del feudo dell’Arcivescovo di Monreale e fondò l’odierna Piana degli Albanesi . Altri albanesi si erano stabiliti nelle Puglie, nei territori che re Ferrante aveva donato a Scanderbeg nel 1461; in quelle terre fondarono i paesi di Faggiano, Martignano, Monteparano, Roccaforzata, San Giorgio, San Martino, San Marzano, Sternatia, Zollino, Chieuti, Casalnuovo, Caslvecchio, Campomarino, San Paolo, Portocannone. Più tardi, verso il 1470, si stabilirono a Santa Croce di Magliano, e solo nel 1540 fu fondata Ururi, oggi in provincia di Campobasso . Il grande esodo avvenne tra il 1468 e il 1479 . Con la caduta di Croia, Alessio e Scutari (1478-1479) l’Albania perde la libertà, e diventa dominio dei turchi che, eserciteranno il loro potere fino al 1912. Fu lo stesso Scanderbeg, in punto di morte, ad invitare suo figlio Giovanni a lasciare l’Albania e a rifugiarsi nei suoi possedimenti pugliesi, da dove, una volta raggiunta la maggiore età avrebbe dovuto tentare di riconquistare l’Albania. Secondo Kol Kamsi Giovanni e sua madre Donica espatriarono non prima del 1474 e si rifugiarono nelle Puglie tra il 1476 e il 1479. Giovanni cercò di mantener fede alla promessa fatta al padre ed organizzò una spedizione contro i turchi. Sopraffatto, però, dallo strapotere nemico si ritirò in Puglia dove sposò la figlia del despota di Serbia Brancovich. Dal matrimonio nacque Costantino, vescovo di Isernia, Giorgio Maria e Ferrante, che a sua volta fu il padre di Irina Scanderbeg, che sposò Pietro Antonio Sanseverino principe di Bisignano. Assieme a Giovanni o, comunque, in quello stesso periodo molte altre comunità albanesi approdarono in Italia, “le più nobili se ne andarono al regno di Napoli” . Se fossero o meno i più nobili, la storia non ci ha tramandato notizia certa, vero è che nel Regno di Napoli trovarono approdo il maggior numero di espatriati. In Calabria si stabilì la colonia più consistente e qui vennero fondati il maggior numero di casali. I motivi che determinarono la generosa ospitalità offerta ai profughi albanesi furono molteplici, innanzittutto l’amicizia che legava Scanderbeg e il suo popolo ai governanti del Regno, accanto a ciò ci furono motivi politici, economici e sociali. Nel Regno di Napoli permaneva un’organizzazione politica di tipo feudale, caratterizzata dal latifondo sfruttato da colture estensive scarsamente produttive e che richiedeva grandi quantità di mano d’opera. Questo tipo di organizzazione, abbandonata nelle altre parti d’Italia dove si era andato affermando un processo di ammodernamento agrario, provocava la crisi economica e sociale che attanagliava il Regno di Napoli in generale e la Calabria in particolare. Fiaccata dalle lotte tra angioini e aragonesi nell’ultimo quarto del secolo XV, la Calabria presentava vivi segni di decadenza civile ed economica, a cui non erano estranee cause di ordine naturale, come la pestilenza ed il degrado delle contrade, con relativo spopolamento, dovuto alla recrudescenza del paludismo, originato a sua volta dall’intensificazione dei disboscamenti per vendita di legna, con conseguenti frane e alluvioni. A completare il quadro desolante del mezzogiorno d’Italia, non di rado si dovevano registrare grandi scosse di terremoto, come quello disastroso che nel 1456 provocò gravi danni e migliaia di vittime. I feudatari locali, in particolar modo, il Principe di Bisignano e i Domenicani di Altomonte accolsero le colonie albanesi facilitandone il loro stanziamento. In questo modo vennero ripopolati casali semiabbandonati o completamente deserti e venne favorita la nascita di nuovi. Risalgono a questo periodo le nascite dei casali di San Demetrio, Macchia, San Cosmo, San Giorgio, Vaccarizzo e Spezzano. Poco più tardi altri profughi fondarono i casali di Plataci, Castroregio, Civita, Porcile (oggi Ejanina), Frascineto, Acquaformosa, Lungro, Firmo, San Basile, Cavallerizzo, Cerzeto, San Giacomo, San Martino di Finita, Farneta, Mongrassano, San Benedetto Ullano, Marri, Falconara Albanese ed altri ancora. E’ certo che la costituzione delle comunità albanesi, in senso proprio, non è avvenuta d’un colpo, con uno spostamento netto e definitivo, ma è il risultato di un lungo e tormentato processo, che comprende passaggi senza stanziamento attraverso centri diversi, rapido insorgere e rapido deperire di agglomerati provvisori, assorbimento in comunità indigene di stanziamenti albanesi minoritari. Solo gradatamente vengono alla luce comunità albanesi con una propria identità. E’ facile notare come gli albanesi fuggiti dalla loro patria non abbiano costruito i loro casali vicini l’un l’altro, bensì in luoghi tra loro discontinui e decentrati. Diverse sono le congetture relative al perchè di questa distribuzione degli stanziamenti . L’ipotesi più probabile è che essi dovettero abbandonare le coste perchè allora erano infestate dalla malaria e perchè quelle zone erano spesso teatro di razzie da parte dei pirati saraceni. Dopodiché si inoltrarono nell’interno continentale e si arroccarono, generalmente, in luoghi montagnosi, spesso impervi, ma dove trovavano spazio di vita. Sparsi in questo territorio vennero accolti dai feudatari, secondo gli usi ed i costumi vigenti, in condizioni di vassallaggio. Anche dopo essersi insediati gli albanesi mal sopportavano la prepotenza baronale e, se subivano un torto o anche per non sottostare alle imposizioni fiscali (in particolar modo il focatico, la tassa di famiglia), bruciavano i loro pagliai e prendevano le strade di altre terre . Girolamo Marafioti nel 1601, a proposito delle abitazioni degli albanesi diceva: “… non tengono case fabricate ma tugurij pastorali, e capanne di tavole”. Solo tra la fine del 1500 e gli inizi del 1600 si possono contare un certo numero di comunità albanesi con una propria stabilità ed una specifica identità etnica e religiosa.

Gli albanesi in terra di Calabria

Quindi senza denaro, senza protezione, e senza incoraggiamento, come potevano coltivare i terreni, abbracciare le arti ? Questa domanda si poneva nel secolo scorso Angelo Masci. Ed infatti gli esuli arrecarono non pochi problemi di ordine pubblico ai governanti di quel tempo. La questione posta dal Masci era un tentativo di confutare le posizioni di chi considerava gli albanesi gente d’armi, refrattari ad ogni imposizione, alla ricerca della libertà ad ogni costo, anarchici talvolta. In battaglia, come si è visto, l’albanese non aveva rivali, lo storico Baldacci riprendendo un testo del 1308 così fotografava la gente albanese: “L’Albania ha uomini bellicosi, sono infatti ottimi cavalieri e lancieri. Hanno gli occhi con una pupilla che gli consente di veder meglio la notte che il giorno”. Questa reputazione gli albanesi la portarono anche nel Regno di Napoli. Carlo Maria Occaso nel secolo scorso così descriveva gli albanesi stanziatisi in terra di Calabria: “Semi-barbari, cattivi agricoltori, con linguaggio diverso, tenacissimi dei loro riti e costumi, non poterono affratellarsi con gli altri antichi abitanti, e spesso fra individui e individui delle diverse nazioni sorgevano sanguinarie risse. Non conoscevano differenze di ceti, e tutti raccolti in tuguri di paglia esercitavano la pastorizia. Bentosto si diedero al ladroneggio e, disertando le campagne e aggredendo le persone, si resero un vero flagello, talchè si vide il bisogno di implorare soccorso dalle autorità superiori”. Infatti nel 1509 la città di Cosenza scrisse ad Ugo Moncada, governatore della Calabria e luogotenente del re Cattolico, una lettera dal tono seguente: “Li albanesi greci et schiavoni quali habitano per li burghi, casali et lochi aperti del regno fanno molti furti e arrobi V.S.I. provveda, che tutti intrino ad habitare dentro le terre murate e per nullo tempo possano habitare fora d’esse terre”. L’amministrazione vicereale fu inflessibile, non consentì che gli albanesi facessero vita nomade e intimò loro di ritirarsi in terre murate. Per reprimere poi il brigantaggio da essi praticato, nel 1564 decretò che nessun albanese potesse andar a cavallo con selle, briglia, speroni e staffe, nè che potesse portare armi, sotto la pena di cinque anni di galera . Altri bandi vietarono agli albanesi anche di potersi recare nelle città con i loro cappelli tradizionali. Queste misure restrittive da un lato arginarono i fenomeni di brigantaggio, di cui si erano resi colpevoli gli albanesi, dall’altro crearono delle isole razziali impermeabili alle influenze esterne. In questo modo gli albanesi mantennero i loro usi, i loro costumi, la loro lingua, il loro rito fino ad oggi.

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